La connessione permanente – e wireless – non è solo una conquista tecnologica del nostro tempo. È una chiave d’accesso alla conoscenza che abbiamo la facoltà di usare in ogni momento: possiamo sapere tutto, vedere tutto, capire tutto, quando vogliamo… Perché, allora, abbiamo sempre più la sensazione di trovarci dentro un labirinto da cui non troviamo il filo per uscire? E perché, nonostante la libertà di seguire infiniti percorsi in autonomia, a volte ci sembra che sia tutto uguale, omologato e un po’ frustrante?
Dopo le bulimie dell’edizione 2011, il XIX Seminario di Capodarco (30 novembre – 2 dicembre) rilancia la discussione sul significato della rete per le nostre vite, e su come la rete influisce sul giornalismo e sul racconto della società. Tra gli innumerevoli spunti di questo dibattito ventennale (ma appena iniziato), c’è per esempio la crescente copertura a distanza dei fatti attraverso contenuti nati o transitati in blog e social network. Una formidabile opportunità in più, purché non ci si illuda che possa sostituire le azioni basilari del giornalismo: studiare, andare, vedere, raccontare. Azioni che si compiono sempre meno a causa della nota crisi del modello tradizionale, ma che sempre basilari restano. Azioni cruciali soprattutto per le storie “deboli”, per i temi sociali e meno illuminati, che oggi appaiono più difficili da spiegare.
È dunque importante farsi domande e azzardare previsioni su come sarà il giornalismo del futuro. Ma forse lo è altrettanto riscoprire alla radice linguaggi e tecniche nati prima della rete, perché ci aiutino a uscire, una volta ogni tanto, da quel labirinto senza fili da cui ogni giorno ci facciamo catturare. E a trovare una connessione permanente – anche – con la realtà.
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