Un Forum internazionale di parlamentari, costituito con una mission che si fa sempre più urgente, nonostante l’ottimismo registrato negli anni Novanta.
Anche per questo il 39° Forum del Parliamentarians for Global Action – promosso con il Montreal Institute of Genocide and Human Rights Studies e la Stanley Foundation sotto il patrocinio del Parlamento italiano -, assume il profilo di un grido di allarme nella Due giorni di Lavori che si riunisce a Milano presso Palazzo Isimbardi, sede della Città metropolitana.
Si discute e si ragiona dell’azione di prevenzione possibile degli estremismi violenti e, appunto, delle atrocità di massa. I delegati, in rappresentanza degli oltre 1400 parlamentari appartenenti a 140 organismi di governo sparsi per il mondo, affrontano questioni complesse e spinose: la responsabilità degli Stati, le convenzioni internazionali che molti di essi non rispettano (pur avendole sottoscritte), il ruolo della società civile e la necessità di difenderla dagli estremismi, la giustizia sociale e la risposta non armata agli attacchi terroristici. E tutto per garantire sicurezza, sensibilizzando i parlamentari del mondo affinché si attuino politiche efficaci su questi contesti attraverso la promozione dei diritti umani, l’inclusione, la democrazia, lo Stato di diritto, l’uguaglianza di genere.
Problemi che oggi riguardano l’intero pianeta per una minaccia globalizzata da affrontare, si dice nel Convegno, «in modo olistico, integrato e multidimensionale, in particolare attraverso la creazione di una governance democratica più resiliente dal Medio Oriente al Nord Africa dal Sahel alle regioni orientali fino al sud-est asiatico».
Anche perché finora la violenza di gruppi come l’Isis, Al Shabab, Boko Haram, Al Qaeda, Daesh e altre reti simili, è stata contrastata principalmente attraverso misure di sicurezza e militari, «ma è giunto il momento di mobilitare leaders influenti, a livello nazionale, per affrontare alla radice le cause del problema».
Si arriva con questa convinzione – molti i delegati che annuiscono mentre parlano i diversi relatori -, alla discussione della Sessione plenaria finale a cui partecipa anche l’arcivescovo Delpini.
L’intervento dell’Arcivescovo
«Milano può essere considerata la capitale della libertà religiosa. Se la città si è sempre compresa come terra di mezzo, non solo dal punto di vista dello scambio commerciale, ma anche culturale, ciò è stato reso possibile dalla maturazione di un’idea di religione – e di libertà ad essa connessa-, che ha saputo strutturare istituzioni politiche e sociali inclusive, capaci di accogliere e integrare», spiega Delpini che non si nasconde le difficoltà di affermare, oggi, il principio della libertà religiosa.
Il pensiero va ai 1700 anni, festeggiati nel 2013, dell’Editto di Costantino e alle riflessioni sviluppate, allora, dal cardinale Scola. «Radicare in un territorio determinato il principio della libertà religiosa significa avviare processi di maturazione culturale, sociale e politica che toccano questioni cruciali del vivere insieme: il rapporto tra pratica religiosa personale e la sua espressione comunitaria; l’equilibrio tra libertà religiosa e pace sociale, il rapporto tra religioni e potere, religione e violenza».
In tale orizzonte, l’Arcivescovo si dice persuaso che una società che contrasti o ignori la dimensione religiosa sia destinata alla dissoluzione e che affermare la libertà di fede «significhi lavorare per la pace, creando relazioni e legami che spingono soggetti, che avrebbero la tentazione di combattersi, a costruire logiche di riconoscimento e di alleanza».
Chiaro quanto tutto questo sia cruciale in una città che è entrata in un nuovo capitolo della sua storia. «Quella Milano divenuta ormai società plurale, chiamata a declinare in nuove forme il principio della libertà religiosa, riconoscendo, accogliendo e stimolando a crescere insieme le fedi che la abitano. Impariamo a riconoscerci fratelli e sorelle, proprio a partire dalle nostre diversità. Solo in questo modo la pace di Dio abiterà i nostri cuori, le città, gli Stati, l’intero creato».
La sessione plenaria finale
Parole che sembrano quasi un’ideale completamento della riflessione, che aveva aperto la Sessione plenaria, di Ivan Simonovic, sottosegretario generale delle Nazioni Unite, consigliere speciale del Segretariato Generale dell’Onu per la responsabilità di protezione.
«Nel settembre 2005, in occasione del Summit mondiale delle Nazioni Unite, tutti gli Stati membri hanno formalmente accettato la responsabilità di ciascuno a proteggere la propria popolazione dal genocidio, dai crimini di guerra, da pulizia etnica e crimini contro l’umanità. I leaders mondiali convennero che, quando uno Stato non riesce a rispondere a tale responsabilità, la comunità internazionale ha la responsabilità di aiutare le persone minacciate di tali crimini. Qualora i mezzi pacifici siano inadeguati, e le autorità nazionali manifestamente incapaci, la comunità stessa deve agire collettivamente in un modo tempestivo e decisivo».
Dunque, lo strumento (di altissimo livello) esiste, ma il problema è, come sempre, di metterlo in pratica. «La responsabilità è spesso rimasta solo sulla carta. Mi vergogno di dire che l’anno prossimo ricorre il 70° anniversario della Convenzione sui Genocidi e che solo 149 Paesi aderiscono. Per questo i parlamentari possono fare molto, agendo dal punto di vista legislativo. Grandissimo è il loro ruolo nel difendere la società civile da violazioni evidenti. Altrettanto importante è l’impegno in campo economico con la possibilità di destinare fondi alla eradicazione della violenza di massa e dell’integralismo. Ma ci vogliono fatti, non parole».